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Perché Roberto Baggio deve diventare presidente della Repubblica.

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Esistono eroi, padri della Patria che onorano il proprio paese seguendo percorsi rocamboleschi, nascosti ed indecifrabili. Non li vedrete mai ritratti in una scultura equestre, ne ingessati in busti marmorei, solo l’inesorabile tempo gli renderà, e non sempre è detto, giustizia. Roberto Baggio sarà uno di questi, e prima di traghettare verso il Pantheon delle glorie Italiche bisogna che il Paese, in un sussulto di dignità, lo faccia prima salire allo scranno della più alta carica dello Stato. Baggio presidente per un settennato di rinascita in un leggittimo parallelo con la presidenza del benemerito Sandro Pertini. Cosa hanno in comune il “Divin Codino”di Caldogno con l’eroe capo della Resistenza Partigiana prima e “Nonno Presidente” dopo? Torniamo indietro di qualche anno, indietro fino al politicamente fatidico 1994. Era una calda ed afosa giornata a Pasadena quel 17 di Luglio, il 10 Maggio di quell’anno il primo governo Berlusconi si era insediato sull’onda dello sconvolgente ed inatteso successo elettorale inaugurando la triste stagione della cosidetta “Seconda Repubblica”, cioè la progressiva svendita del paese agli interessi di un privato ed il conseguente imbarbarimento dei costumi in tutti gli ambiti, come è ormai storia il partito si chiamava Forza Italia, fin da subito ci si appropriò di un innocente slogan sportivo per pure ragioni di propaganda giusto per dare immediatemente il profumo degli anni a venire. Io ricordo ancora quella serata del 17 Luglio, che se a Pasadena era afosa a Palermo era da collasso, tutti a vedere la finale riacciuffata dopo la delusione di Italia ’90 a casa di amici, entrando vidi con grande sorpresa il mio amico Marco con addosso la maglia del Brasile, io ero ancora acerbo o meglio, ancora spiazzato dal tornado Berlusconi e d’istinto gli dissi: “Marco, ma che fai, vuoi portare, sfiga?” Lui più sgamato politicamente mi disse: “Se vinciamo i mondiali siamo fatti, è finita, tutto il paese a gridare “Forza Italia”e quello stronzo non lo ferma più nessuno”. I tristi anni del ventennio successivo mi fecero capire perfettamente le ragioni di Marco, per inciso, nonostante la sconfitta dell’Italia, quello stronzo non lo fermò più nessuno comunque, ma almeno si creò una fascia della popolazione saldamente resistente al Cavaliere Nero. L’eroe di questa Resistenza si chiama Roberto Baggio, che sparò alto il rigore decisivo. Per anni quell’assurdo epilogo rimase incomprensibile, il più grande talento della storia del calcio Italiano, che ci aveva trascinati in finale, rigorista infallibile, che calciava il peggiore rigore mai visto nel calcio professionistico. In successive interviste, Baggio, con quella tipica umiltà e che è degli Eroi cercò di dissimulare il suo gesto “resistente” con spiegazioni fascinose, nel 2010, intervistato da Tele Globo, disse testualmente: "Non avevo mai calciato un rigore sopra la traversa. Penso che quel giorno sia stato Ayrton Senna che, dal cielo, ha spinto il pallone verso l'alto. E' stato lui a far vincere il Brasile", la Seleçao, in effetti aveva promesso di dedicare la vittoria all’asso del volante scomparso tragicamente proprio quell’anno, e sempre Baggio, dando prova di una serenità spirituale così rara nel mondo del calcio (e della politica): "E' una ferita che non si chiuderà mai, sul momento avrei voluto scavare una buca e nascondermici dentro. Poi ho pensato che, visto che il Brasile ha molti più abitanti dell'Italia, con quel mio errore avevo fatto felice molta più gente”. Probailmente, Baggio, coerente al suo personaggio minimal, non ci rivelerà mai che quello fu un gesto voluto, di autentica ed eroica “diserzione”. Egli era tra i pochi a quell’epoca ad aver capito che la vera macchina del consenso non era nelle TV di Berlusconi o nei giornali di parte, come scolasticamente e pigramente si proclamava, ma nella costruzione culturale del Milan di Arrigo Sacchi, l’allenatore non professionista (vedi mitologia dei non-professionisti della politica) che adesso portava la nazionale infarcita di milanisti, anche brocchi o in disarmo, ad un passo dalla Coppa del Mondo. Quel Milan era in effetti un fenomeno, e vinceva con un gioco spettacolare ed agressivo che sembrava preludere ad un autentica “rifondazione” del carattere nazionale. Il messaggio del Cavaliere era chiaro: -quello che io tocco si trasforma in oro, sulle aziende avrò forse potuto fare manovre occulte ricevere appoggi, ma guardate il Milan che strapazza il Barcellona, facendolo apparire un team difensivista e catenacciaro, questo non può essere confutato guardate cosa dicono all’estero di noi: “non sembra neppure una squadra italiana”-. -Affidatemi a me e io renderò tutto il Paese come il Milan di Sacchi, gli Italiani saranno rispettati nel mondo-. Sembra la triste parabola dell’Italiano Nuovo, più cattivo e spartano di Benito Mussolini (e delle leggi razziali) e non sorprende più di tanto scoprire come il dittatore fascista sia sempre stato un riferimento culturale per il Caimano. In quell’orgia di consenso stavano lentamente scivolando tutti, anche quelli che alla vigilia delle elezioni del ’94 vedevano come pericolosa una tale concentrazione di poteri nella mani di un solo uomo (ve lo assicuro ce n’erano anche a destra), quando il Divin Codino, in un atto di eroismo che non ha eguali (rinunciare a fregiarsi del titolo mondiale è della tempra del martire) decise di sparare il pallone in tribuna. Quella palla che volava alto ci fece capire che un altro mondo era possibile e che valeva la pena di lottare. Grazie Baggio, portiamo nel cuore il tuo esempio, per queste drammatiche elezioni, facciamo che l’Italia si liberi finalmente di questo brutto incubo ed impegnamoci, anche con una petizione, ad avere l’ispiratore di questa nuova Resistenza al Quirinale!




Il Fascismo Eterno (di Umberto Eco)

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Nel 1942, all'età di dieci anni, vinsi il primo premio ai Ludi Juveniles (un concorso a libera partecipazione coatta per giovani fascisti italiani - vale a dire, per tutti i giovani italiani). Avevo elaborato con virtuosismo retorico sul tema: "Dobbiamo noi morire per la gloria di Mussolini e il destino immortale
dell'Italia?" La mia risposta era stata affermativa. Ero un ragazzo sveglio.

Poi nel 1943 scopersi il significato della parola "libertà". Racconterò questa storia alla fine del mio discorso. In quel momento "libertà" non significava ancora `liberazione". Ho passato due dei miei primi anni tra SS, fascisti e partigiani, che si sparavano l'un l'altro, e ho imparato come scansare le pallottole. Non è stato male come esercizio. Nell'aprile del 1945 i partigiani presero Milano. Due giorni dopo arrivarono nella piccola città dove
vivevo. Fu un momento di gioia. La piazza principale era affollata di gente che cantava e sventolava bandiere, invocando a gran voce Mimo, il capo partigiano della zona. Mimo, ex maresciallo dei carabinieri, si era messo coi badogliani e aveva perso una gamba in uno dei primi scontri. Si fece vedere al
balcone del comune, appoggiato alle sue stampelle, pallido; cercò con una mano di calmare la folla. Io ero lì che aspettavo il suo discorso, visto che tutta la mia infanzia era stata segnata dai grandi discorsi storici di Mussolini, di cui a scuola imparavamo a memoria i passi più significativi. Silenzio. Mimo parlò con voce rauca, quasi non si sentiva. Disse: "Cittadini, amici. Dopo tanti dolorosi sacrifici... eccoci qui. Gloria ai caduti per la libertà." Fu tutto. E tornò dentro. La folla gridava, i partigiani alzarono le loro armi e spararono in aria festosamente. Noi ragazzi ci precipitammo a raccogliere i bossoli, preziosi
oggetti da collezione, ma avevo anche imparato che la libertà di parola significa libertà dalla retorica. Alcuni giorni dopo vidi i primi soldati americani. Erano afro-americani. Il primo yankee che incontrai era un nero, Joseph, che mi fece conoscere le meraviglie di Dick Tracy e di Li'1 Abner. I suoi fumetti erano a colori e avevano un buon odore. Uno degli ufficiali (il maggiore o capitano Muddy) era ospite nella villa della famiglia di due mie compagne di scuola. Ero a casa mia in quel giardino dove alcune signore facevano crocchio intorno al capitano Muddy, parlando un francese approssimativo. Il capitano Muddy aveva una buona educazione superiore e conosceva un po' di francese. Così, la mia prima immagine dei liberatori americani, dopo tanti visi pallidi in camicia nera, fu quella di un nero colto in uniforme giallo-verde che diceva: "Oui, merci beaucoup Madame, moi aussi j’aime le champagne..." Sfortunatamente mancava lo champagne, ma dal capitano Muddy ebbi il mio primo chewing-gum e cominciai a masticare tutto il giorno. Di notte mettevo la cicca in un bicchiere d'acqua, per tenerla in fresco per il giorno dopo. In maggio, sentimmo dire che la guerra era finita. La pace mi diede una sensazione curiosa. Mi era stato detto che la guerra permanente era la condizione normale per un giovane italiano. Nei mesi successivi scoprii che la Resistenza non era solo un fenomeno locale, ma europeo. Imparai nuove, eccitanti parole come "reseau"; "maquis", "armée secrete", "Rote Kapelle" "ghetto di Varsavia". Vidi le prime fotografie dell'Olocausto, e ne compresi così il significato prima di conoscere la parola. Mi resi conto da che cosa eravamo stati liberati. In Italia vi sono oggi alcuni che si domandano se la Resistenza abbia avuto un reale impatto militare sul corso della guerra. Per la mia generazione la questione è irrilevante: comprendemmo immediatamente
il significato morale e psicologico della Resistenza. Era motivo d'orgoglio sapere che noi europei non avevamo atteso la liberazione passivamente. Penso che anche per i giovani americani che versavano il loro tributo di sangue alla nostra libertà non era irrilevante sapere che dietro le linee c'erano europei
che stavano già pagando il loro debito. In Italia c'è oggi qualcuno che dice che il mito della Resistenza era una bugia comunista. E vero che i comunisti hanno sfruttato la Resistenza come una proprietà personale, dal momento che vi ebbero un ruolo primario; ma io ricordo partigiani con fazzoletti di diversi colori. Appiccicato alla radio, passavo le mie notti - le finestre chiuse, e l'oscuramento generale che faceva del piccolo spazio intorno all'apparecchio l'unico alone luminoso - ascoltando i messaggi che Radio Londra trasmetteva ai partigiani. Erano al tempo stesso oscuri e poetici ("Il sole sorge ancora", "Le rose fioriranno"), e la maggior parte erano "messaggi per la Franchi". Qualcuno mi bisbigliò che Franchi era il capo di uno dei gruppi clandestini più potenti dell'Italia del Nord, un uomo dal coraggio leggendario. Franchi divenne il mio eroe. Franchi (il cui vero nome era Edgardo Sogno) era un monarchico, così anticomunista che dopo la guerra si unì a gruppi di estrema destra, e venne anche accusato di aver collaborato a un colpo di stato reazionario. Ma che importa? Sogno rimane ancora il sogno della mia infanzia. La liberazione fu un'impresa comune per gente di diverso colore. In Italia c'è oggi qualcuno che dice che la guerra di liberazione fu un tragico periodo di divisione, e che abbiamo ora bisogno di una riconciliazione nazionale. Il ricordo di quegli anni terribili dovrebbe venire represso. Ma la repressione provoca nevrosi. Se riconciliazione significa compassione e rispetto per tutti coloro che hanno combattuto la loro guerra in buona fede, perdonare non significa dimenticare.
Posso anche ammettere che Eichmann credesse sinceramente nella sua missione, ma non mi sento di dire: "Okay, torna e fallo ancora." Noi siamo qui per ricordare ciò che accadde e per dichiarare solennemente che "loro" non debbono farlo più. Ma chi sono "loro"? Se pensiamo ancora ai governi totalitari che dominarono l'Europa prima della seconda guerra mondiale,
possiamo dire con tranquillità che sarebbe difficile vederli ritornare nella stessa forma in circostanze storiche diverse. Se il fascismo di Mussolini si fondava sull'idea di un capo carismatico, sul corporativismo, sull'utopia del "destino fatale di Roma", su una volontà imperialistica di conquistare nuove terre, su un nazionalismo esacerbato, sull'ideale di una intera nazione irreggimentata in camicia nera, sul rifiuto della democrazia parlamentare, sull'antisemitismo, allora non ho difficoltà ad ammettere che Alleanza Nazionale, nata dal1'MSI, è certamente un partito di destra, ma ha poco a che fare col vecchio fascismo. Per le stesse ragioni, anche se sono preoccupato dai vari movimenti filonazisti attivi qua e là in Europa, Russia compresa, non penso che il nazismo, nella sua forma originale, stia per ricomparire come movimento che coinvolga una nazione intera. Tuttavia, anche se i regimi politici possono venire rovesciati, e le ideologie criticate e delegittimate, dietro un regime e la sua ideologia c'è sempre un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni. C'è dunque ancora un altro fantasma che si aggira per l'Europa (per non parlare di altre parti del mondo)? lonesco disse una volta che "solo le parole contano e il resto sono chiacchiere". Le abitudini linguistiche sono spesso sintomi importanti di sentimenti inespressi. Lasciatemi dunque chiedere perché non solo la Resistenza ma tutta la seconda guerra mondiale sono state definite in tutto il mondo come una lotta contro il fascismo. Se rileggete Per chi suona la campana di Hemingway, scoprirete che Robert Jordan identifica i suoi nemici coi fascisti, anche quando pensa ai falangisti spagnoli. Permettetemi di lasciare la parola a Franklin Delano Roosevelt: "La vittoria del popolo americano e dei suoi alleati sarà una vittoria contro il fascismo e il vicolo cieco del dispotismo che esso rappresenta" (23 settembre 1944). Durante gli anni di McCarthy, gli americani che avevano preso parte alla guerra civile spagnola venivano chiamati "antifascisti prematuri" - intendendo con ciò che combattere Hitler negli anni quaranta era un dovere morale per ogni buon americano, ma combattere contro Franco troppo presto, negli anni trenta, era sospetto. Perché un'espressione come "Fascist pig" veniva usata dai radicali americani persino
per indicare un poliziotto che non approvava quello che fumavano? Perché non dicevano: "Porco Caugolard", "Porco falangista", "Porco ustascia", "Porco Quisling", "Porco Ante Pavelic", "Porco nazista"? Mein Kampf è il manifesto completo di un programma politico. II nazismo aveva una teoria del razzismo
e dell'arianesimo, una nozione precisa della entartete Kunst, 1`arte degenerata", una filosofia della volontà di potenza e dell' Ubermensch. Il nazismo era decisamente anticristiano e neopagano, allo stesso modo in cui il Diamat (la versione ufficiale del marxismo sovietico) di Stalin era chiaramente
materialista e ateo. Se per totalitarismo si intende un regime che subordina ogni atto individuale allo stato e alla sua ideologia, allora nazismo e stalinismo erano regimi totalitari. Il fascismo fu certamente una dittatura, ma non era compiutamente totalitario, non tanto per la sua mitezza, quanto per la debolezza filosofica della sua ideologia. Al contrario di ciò che si pensa comunemente, il fascismo italiano non aveva una sua filosofia. L'articolo sul fascismo firmato da Mussolini per l'Enciclopedia Treccani fu scritto o venne fondamentalmente ispirato da Giovanni Gentile, ma rifletteva una nozione tardo-hegeliana dello "stato etico e assoluto" che Mussolini non realizzò mai completamente. Mussolini non aveva nessuna filosofia: aveva solo una retorica. Cominciò come ateo militante, per poi firmare il concordato con la Chiesa e simpatizzare coi vescovi che benedivano i gagliardetti
fascisti. Nei suoi primi anni anticlericali, secondo una plausibile leggenda, chiese una volta a Dio di fulminarlo sul posto, per provare la sua esistenza. Dio era evidentemente distratto. In anni successivi, nei suoi discorsi Mussolini citava sempre il nome di Dio e non disdegnava di farsi chiamare "l'uomo della Provvidenza". Si può dire che il fascismo italiano sia stata la prima dittatura di destra che abbia dominato un paese europeo, e che tutti i movimenti analoghi abbiano trovato in seguito una sorta di archetipo comune nel regime di Mussolini. Il fascismo italiano fu il primo a creare una liturgia militare, un folklore, e persino un modo di vestire - riuscendo ad avere all'estero più successo di Armani, Benetton o Versace. Fu solo negli anni trenta che movimenti fascisti fecero la loro comparsa in Inghilterra, con Mosley, e in Lettonia, Estonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Grecia, Iugoslavia, Spagna, Portogallo, Norvegia, e persino in America del Sud, per non parlare della Germania. Fu il fascismo italiano a convincere molti leader liberali europei che il nuovo regime stesse attuando interessanti
riforme sociali in grado di fornire una alternativa moderatamente rivoluzionaria alla minaccia comunista Tuttavia, la priorità storica non mi sembra una ragione sufficiente per spiegare perché la parola "fascismo" divenne una sineddoche, una denominazione pars pro toto per movimenti totalitari diversi.
Non serve dire che il fascismo conteneva in sé tutti gli elementi dei totalitarismi successivi, per così dire, "in stato quintessenziale". Al contrario, il fascismo non possedeva alcuna quintessenza, e neppure una singola essenza. Il fascismo era un totalitarismo fuzzy2. Il fascismo non era una ideologia monolitica, ma piuttosto un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni. Si può forse concepire un movimento totalitario che riesca a mettere insieme monarchia e rivoluzione, esercito
regio e milizia personale di Mussolini, i privilegi concessi alla Chiesa e una educazione statale che esaltava la violenza, il controllo assoluto e il libero mercato? Il partito fascista era nato proclamando il suo nuovo ordine rivoluzionario ma era finanziato dai proprietari terrieri più conservatori, che si aspettavano una controrivoluzione. Il fascismo degli inizi era repubblicano e sopravvisse per vent'anni proclamando la sua lealtà alla famiglia reale, permettendo a un "duce" di tirare avanti sottobraccio a un "re" cui offerse anche il titolo di "imperatore". Ma quando nel 1943 il re licenziò Mussolini, il partito riapparve due mesi dopo, con l'aiuto dei tedeschi, sotto la bandiera di una repubblica "sociale", riciclando la sua vecchia partitura rivoluzionaria, arricchita di accentuazioni quasi giacobine. Ci fu una sola architettura nazista, e una sola arte nazista. Se l'architetto nazista era Albert Speer, non c'era posto per Mies van der Rohe. Allo stesso modo, sotto Stalin, se Lamarck aveva ragione non c'era posto per Darwin. Al contrario, vi furono certamente degli architetti fascisti, ma accanto ai loro pseudocolossei sorsero anche dei nuovi edifici ispirati al moderno razionalismo di Gropius. Non ci fu uno Zdanov fascista. In Italia ci furono due importanti premi artistici: il Premio Cremona
era controllato da un fascista incolto e fanatico come Farinacci, che incoraggiava un'arte propagandistica (mi ricordo di quadri intitolati Ascoltando alla radio un discorso del Duce o Stati mentali creati dal Fascismo); e il Premio Bergamo, sponsorizzato da un fascista colto e ragionevolmente tollerante come Bottai, che proteggeva l'arte per l'arte e le nuove esperienze dell'arte d'avanguardia che in Germania erano state bandite come corrotte e criptocomuniste, contrarie al Kitsch nibelungico, il solo ammesso. Il poeta nazionale era D'Annunzio, un dandy che in Germania o in Russia sarebbe stato mandato davanti al plotone d'esecuzione. Venne assunto al rango di Vate del regime per il suo nazionalismo e il suo culto dell'eroismo - con l'aggiunta di forti dosi di decadentismo francese. Prendiamo il futurismo. Avrebbe dovuto essere considerato un esempio di entartete Kunst, così come l'espressionismo, il cubismo, il surrealismo. Ma i primi futuristi italiani erano nazionalisti, favorirono per ragioni estetiche la partecipazione italiana alla prima guerra mondiale, celebrarono la velocità, la violenza, il rischio, e in certo modo questi aspetti sembrarono vicini al culto fascista della gioventù.
Quando il fascismo si identificò con l'impero romano e riscoprì le tradizioni rurali, Marinetti (che proclamava una automobile più bella della Vittoria di Samotracia e voleva persino uccidere il chiaro di luna) venne nominato membro dell'Accademia d'Italia, che trattava il chiaro di luna con grande rispetto. Molti dei futuri partigiani, e dei futuri intellettuali del Partito Comunista, vennero educati dal GUF, l'associazione fascista degli studenti universitari, che doveva essere la culla della nuova cultura fascista. Questi club divennero una sorta di calderone intellettuale in cui le nuove idee circolavano senza nessun reale controllo ideologico, non tanto perché gli uomini di partito fossero tolleranti, quanto perché pochi di loro possedevano gli strumenti intellettuali per controllarle. Nel corso di quel ventennio, la poesia degli ermetici rappresentò una reazione allo stile pomposo del regime: a questi poeti venne permesso di elaborare la loro protesta letteraria dall'interno della torre d'avorio. Il sentire degli ermetici era esattamente il contrario del culto fascista dell'ottimismo e dell'eroismo. Il regime tollerava questo dissenso palese, anche se socialmente impercettibile, perché non prestava sufficiente attenzione a un gergo così oscuro. Il che non significa che il fascismo italiano fosse tollerante. Gramsci venne messo in prigione fino
alla morte, Matteotti e i fratelli Rosselli vennero assassinati, la libera stampa soppressa, i sindacati smantellati, i dissidenti politici confinati su isole remote, il potere legislativo divenne una mera finzione e quello esecutivo (che controllava il giudiziario, come pure i mass media) emanava direttamente le
nuove leggi, tra le quali vi furono anche quelle per la difesa della razza (l'appoggio formale italiano all'Olocausto). L'immagine incoerente che ho descritto non era dovuta a tolleranza: era un esempio di sgangheratezza politica e ideologica. Ma era una "sgangheratezza ordinata", una confusione strutturata. Il fascismo era filosoficamente scardinato, ma dal punto di vista emotivo era fermamente incernierato ad alcuni archetipi. Siamo ora giunti al secondo punto della mia tesi. Ci fu un solo nazismo, e non possiamo chiamare
"nazismo" il falangismo ipercattolico di Franco, dal momento che il nazismo è fondamentalmente pagano, politeistico e anticristiano, o non è nazismo. Al contrario, si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia. Succede alla nozione di "fascismo" quel che, secondo Wittgenstein, accade alla nozione di "gioco". Un gioco può essere o non essere competitivo, può interessare una o più persone, può richiedere qualche particolare abilità o nessuna, può mettere in palio del danaro, o no. I giochi sono una serie di attività diverse che mostrano solo una qualche "somiglianza di famiglia". 

1      2     3  4

abc bcd cde def


Supponiamo che esista una serie di gruppi politici. Il gruppo 1 è caratterizzato dagli aspetti abc, il gruppo 2 da quelli bcd, e così via. 2 è simile a 1 in quanto hanno due aspetti in comune. 3 è simile a 2 e 4 è simile a 3 per la stessa ragione. Si noti che 3 è anche simile a 1 (hanno in comune l'aspetto c). Il caso
più curioso è dato da 4, ovviamente simile a 3 e a 2, ma senza nessuna caratteristica in comune con 1. Tuttavia, a ragione della ininterrotta serie di decrescenti similarità tra 1 e 4, rimane, per una sorta di transitività illusoria, un'aria di famiglia tra 4 e 1. Il termine "fascismo" si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. Togliete al fascismo l'imperialismo e avrete Franco o Salazar; togliete il colonialismo e avrete il fascismo balcanico. Aggiungete al fascismo italiano un anticapitalismo radicale (che non affascinò mai Mussolini) e avrete Ezra Pound. Aggiungete il culto della mitologia celtica e il misticismo del Graal (completamente estraneo al fascismo ufficiale) e avrete uno dei più rispettati guru fascisti, Julius Evola. A dispetto di questa confusione, ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di
quello che vorrei chiamare 1`Ur-Fascismo", o il "fascismo eterno". Tali caratteristiche non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.
1. La prima caratteristica di un Ur-Fascismo è il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione Francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico.
Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all'alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici
egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. "Sincretismo" non è solo, come indicano i dizionari, la combinazione di forme diverse di credenze o pratiche. Una simile combinazione deve tollerare le contraddizioni. Tutti i messaggi originali contengono un germe di saggezza e quando sembrano dire
cose diverse o incompatibili è solo perché tutti alludono, allegoricamente, a qualche verità primitiva. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volta per tutte, e noi possiamo solo continuare a interpretare il suo oscuro messaggio. E sufficiente
guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatori tradizionalisti. La gnosi nazista si nutriva di elementi tradizionalisti, sincretistici, occulti. La più importante fonte teoretica della nuova destra italiana, Julius Evola, mescolava il Graal con i Protocolli dei Savi di Sion, l'alchimia con il Sacro Romano Impero. Il fatto stesso che per mostrare la sua apertura mentale una parte della destra italiana abbia recentemente ampliato il suo sillabo mettendo insieme De Maistre, Guenon e Gramsci è una prova lampante di sincretismo. Se curiosate tra gli scaffali che nelle librerie americane portano l'indicazione "New Age", troverete persino Sant'Agostino, il quale, per quanto ne sappia, non era fascista. Ma il fatto stesso di mettere insieme Sant'Agostino e Stonehenge, questo è un sintomo di Ur-Fascismo.
2. Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. Sia i fascisti che i nazisti adoravano la tecnologia, mentre i pensatori tradizionalisti di solito rifiutano la tecnologia come negazione dei valori spirituali tradizionali. Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l'aspetto superficiale di una ideologia basata sul "sangue" e la "terra" (Blut und Boden). Il rifiuto del mondo moderno era camuffato come condanna del modo di vita capitalistico, ma riguardava
principalmente il rigetto dello spirito del 1789 (o del 1776, ovviamente). L'illuminismo, l'età della Ragione vengono visti come l'inizio della depravazione moderna. In questo senso, l'Ur-Fascismo può venire definito come "irrazionalismo".
3. L'irrazionalismo dipende anche dal culto dell azione per l'azione. L'azione è bella di per sé, e dunque deve essere attuata prima di e senza una qualunque riflessione. Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. Dalla dichiarazione attribuita a Goebbels ("Quando sento parlare di cultura, estraggo la mia pistola") all'uso frequente di espressioni quali "Porci intellettuali", "Teste d'uovo", "Snob radicali", "Le università sono un covo di comunisti", il sospetto verso il mondo intellettuale è sempre stato un sintomo di Ur-Fascismo. Gli intellettuali fascisti ufficiali erano principalmente impegnati nell'accusare la cultura moderna e l'intellighenzia liberale di aver abbandonato i valori tradizionali.
4. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l'Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento.
5. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L'UrFascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. Il primo appello di un movimento fascista o prematuramente fascista è contro gli intrusi. L'Ur-Fascismo è dunque razzista per definizione.
6. L'Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l'appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni.
Nel nostro tempo, in cui i vecchi "proletari" stanno diventando piccola borghesia (e i Lumpen si autoescludono dalla scena politica), il fascismo troverà in questa nuova maggioranza il suo uditorio.
7. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l'Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. E questa l'origine del `nazionalismo': Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice
della psicologia Ur-Fascista vi è l'ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. Ma il complotto deve venire anche dall'interno: gli ebrei sono di solito l'obiettivo migliore, in quanto presentano il vantaggio di essere al tempo stesso dentro e fuori. In America, ultimo esempio dell'ossessione del complotto è rappresentato dal libro The New World Order di Pat Robertson.
8. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. Quando ero bambino mi insegnavano che gli inglesi erano il "popolo dei cinque pasti": mangiavano più spesso degli italiani, poveri ma sobri. Gli ebrei sono ricchi e si aiutano l'un l'altro grazie a una rete segreta di mutua assistenza. I seguaci debbono tuttavia essere convinti di poter sconfiggere i nemici. Così, grazie a un continuo spostamento di registro retorico, i nemici sono al tempo stesso troppo forti e troppo deboli.
I fascismi sono condannati a perdere le loro guerre, perché sono costituzionalmente incapaci di valutare con obiettività la forza del nemico.
9. Per l'Ur-Fascismo non c'è lotta per la vita, ma piuttosto "vita per la lotta". Il pacifismo è allora collusione col nemico; il pacifismo è cattivo perché la vita è una guerra permanente. Questo tuttavia porta con sé un complesso di Armageddon: dal momento che i nemici debbono e possono essere sconfitti,
ci dovrà essere una battaglia finale, a seguito della quale il movimento avrà il controllo del mondo. Una simile soluzione finale implica una successiva era di pace, un'età dell'Oro che contraddice il principio della guerra permanente. Nessun leader fascista è mai riuscito a risolvere questa contraddizione.
10. L'elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L'Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un "elitismo popolare". Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un "dominatore". Dal momento che il gruppo è organizzato gerarchicamente (secondo un modello militare), ogni leader subordinato disprezza i suoi subalterni, e ognuno di loro disprezza i suoi sottoposti. Tutto ciò rinforza il senso di un elitismo di massa.
11. In questa prospettiva, ciascuno è educato per diventare un eroe. In ogni mitologia 1`eroe" è un essere eccezionale, ma nell'ideologia Ur-Fascista l'eroismo è la norma. Questo culto dell'eroismo è strettamente legato al culto della morte: non a caso il motto dei falangisti era: "Viva la muerte” Alla gente normale si dice che la morte è spiacevole ma bisogna affrontarla con dignità; ai credenti si dice che è un modo doloroso per raggiungere una felicità soprannaturale. L'eroe Ur-Fascista, invece, aspira alla morte, annunciata come la migliore ricompensa per una vita eroica. L'eroe Ur-Fascista è impaziente di morire. Nella sua impazienza, va detto in nota, gli riesce più di frequente far morire gli altri. 12. Dal momento che sia la guerra permanente sia l'eroismo sono giochi difficili da giocare, l'Ur-Fascista trasferisce la sua volontà di potenza su questioni sessuali. È questa l'origine del machismo (che implica disdegno per le donne e una condanna intollerante per abitudini sessuali non conformiste, dalla castità all'omosessualità). Dal momento che anche il sesso è un fioco difficile da giocare, l'eroe Ur-Fascista gioca con armi, che sono il suo Ersatz fallico: i suoi giochi di guerra sono dovuti a una invidia penis permanente.
13. L'Ur-Fascismo si basa su un "populismo qualitativo" : In una democrazia i cittadini godono di diritti individuali, ma l'insieme dei cittadini è dotato di un impatto politico solo dal punto di vista quantitativo (si seguono le decisioni della maggioranza). Per l'UrFascismo gli individui in quanto individui non hanno diritti, e il "popolo" è concepito come una qualità, un'entità monolitica che esprime la "volontà comune". Dal momento che nessuna quantità di esseri umani può possedere una volontà comune, il leader pretende di essere il loro interprete. Avendo perduto il loro potere di delega, i cittadini non agiscono,
sono solo chiamati pars pro toto, a giocare il ruolo del popolo. Il popolo è così solo una finzione teatrale. Per avere un buon esempio di populismo qualitativo, non abbiamo più bisogno di Piazza Venezia o dello stadio di Norimberga. Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo Tv o Internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata e accettata come la "voce del popolo". A ragione del suo populismo qualitativo, l'Ur-Fascismo deve opporsi ai`putridi" governi parlamentari. Una delle prime frasi pronunciate da Mussolini nel parlamento italiano fu: "Avrei potuto trasformare quest'aula sorda e grigia in un bivacco per i miei manipoli." Di fatto, trovò immediatamente un alloggio migliore per i suoi manipoli, ma poco dopo liquidò il parlamento. Ogni qual volta un politico getta dubbi sulla legittimità del parlamento perché non rappresenta più la "voce del popolo", possiamo sentire l'odore di Ur-Fascismo.
14. L'Ur-Fascismo parla la "neolingua". La "neolingua" venne inventata da Orwell in 1984, come la lingua ufficiale dell'Ingsoc, il Socialismo Inglese, ma elementi di Ur-Fascismo sono comuni a forme diverse di dittatura. Tutti i testi scolastici nazisti o fascisti si basavano su un lessico povero e su una sintassi elementare, al fine di limitare gli strumenti per il ragionamento complesso e critico. Ma dobbiamo essere pronti a identificare altre forme di neolingua, anche quando prendono la forma innocente di un popolare talkshow. Dopo aver indicato i possibili archetipi dell'Ur-Fascismo, mi sia concesso di concludere. Il mattino del 27 luglio del 1943 mi fu detto che, secondo delle informazioni lette alla radio, il fascismo era crollato e che Mussolini era stato arrestato. Mia madre mi mandò a comperare il giornale. Andai al chiosco più vicino e vidi che i giornali c'erano, ma i nomi erano diversi. Inoltre, dopo una breve occhiata ai titoli, mi resi conto che ogni giornale diceva cose diverse. Ne comperai uno, a caso, e lessi un messaggio stampato in prima pagina, firmato da cinque o sei partiti politici, come Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista, Partito d'Azione, Partito Liberale. Fino a quel momento avevo creduto che vi fosse un solo partito in ogni paese, e che in Italia ci fosse solo il Partito Nazionale Fascista. Sta8vo scoprendo che nel mio paese ci potevano essere diversi partiti allo stesso tempo. Non solo: dal momento
che ero un ragazzo sveglio, mi resi subito conto che era impossibile che tanti partiti fossero sorti da un giorno all'altro. Capii così che esistevano già come organizzazioni clandestine. Il messaggio celebrava la fine della dittatura e il ritorno della libertà: libertà di parola, di stampa, di associazione politica. Queste parole, "libertà", "dittatura" - Dio mio - era la prima volta in vita mia che le leggevo. In virtù di queste nuove parole ero rinato uomo libero occidentale. Dobbiamo stare attenti che il senso di queste parole non si dimentichi ancora. L'Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: "Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!" Ahimè, la vita non è così facile. L'Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l'indice su ognuna delle sue nuove forme - ogni giorno, in ogni parte del mondo. Do ancora la parola a Roosevelt: "Oso dire che se la democrazia americana cessasse di progredire come una forza viva, cercando giorno e notte con mezzi pacifici, di migliorare le condizioni dei nostri cittadini, la forza del fascismo crescerà nel nostro paese" (4 novembre 1938). Libertà e liberazione sono un compito che non finisce mai. Che sia questo il nostro motto: “Non dimenticate”.

Mentre Morivo (William Faulkner)

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"Così mi presi Anse. E quando mi resi conto di avere Cash, mi resi conto che vivere era terribile e che quella era la risposta. Fu allora che capii che le parole non servono a nulla; che le parole non corrispondono mai neanche a quello che tentano di dire. Quando nacque mi resi conto che maternità era stata inventata da qualcuno che doveva trovarle una parola perché a chi i bambini li ha avuti non gli importava nulla se c’era una parola o no. Mi resi conto che paura era stata inventata da qualcuno che non aveva mai avuto paura; orgoglio, da qualcuno che di orgoglio non ne aveva mai avuto… Anche lui [Cash] aveva una parola. Amore, lo chiamava. Ma era da un pezzo che avevo fatto l’abitudine alle parole. Sapevo benissimo che quella parola era come tutte le altre: semplicemente una forma per riempire un vuoto; che quando fosse venuto il momento, non ci sarebbe stato bisogno di una parola, per quello, più che per l’orgoglio o per la paura."

Io sono contenuto in un sogno

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Questa mattina il sole scaldava le tegole come non accadeva da mesi, uscivamo da un altro inverno ed entravamo negli odori dei germogli che a dispetto della città si spandono e sopravvivano al mattino prima che i fumi della frenesia coprano tutto. Accompagnavo mio figlio a scuola, fingevamo un passo veloce lanciandoci sguardi di indolenza. All'improvviso mi chiede: "Papà, dov'è Renato piccolo?" Ed io: "Sei cresciuto adesso" e lui: "Si ma Renato piccolo dov'è?" Allora disegno una probabile via d'uscita: "Sei cresciuto, abbiamo tante foto di quando eri piccolo". Ma lui mi interrompe: "Ma no Papà, Renato piccolo è qua dentro!" E mentre lo dice si pizzica le guance, con il gesto tipico di chi cerca di dire a se stesso: dormo o sto sognando? Con quale incredibile acume e semplicità mi ha detto ciò che io avrei espresso con mille e complesse teorie: in qualunque momento della vita noi conteniamo ciò che siamo stati anni prima o solo un secondo prima e questo in un processo irreversibile, e quando ci fermiamo a riflettere su questo flusso incessante tutto ci appare un sogno che stentiamo a credere, ci pizzichiamo il volto per capire se siamo desti, e lo siamo. Così gli ho detto che anche Papà piccolo e Papà ancora più piccolo erano dentro di me, sotto il mio volto. Siamo arrivati a scuola che eravamo più di duecento.

10 Maggio 1933, quasi un secolo (breve) fa

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Il 10 Maggio 1933 cioè esattamente ottanta anni fa si svolgeva nelle principali piazze berlinesi il cosiddetto Bücherverbrennungen, il sinistro rogo di libri voluto dal regime nazista allo scopo di, secondo le parole di Goebbels: "eliminare con le fiamme lo spirito del passato" e per far si che l'uomo del futuro fosse un uomo non fatto di libri ma di carattere. In momenti di difficoltà e di messa in discussione del modello democratico si riporta come monito questo truce evento del passato, ma spesso non ci si sofferma su altre tragiche differenze che col tempo si sono stratificate. Vedete, il manifesto propagandistico americano riportato sopra ci dice che grazie all'esportazione di libertà, dieci anni dopo quei libri erano ancora letti ed apprezzati dal mondo libero, e così direi ottant'anni dopo. Diverso è però probabilmente il peso di quei libri, o di tutti i libri sulla formazione dell'opinione e sulla lettura della realtà, o per dirla dal punto di vista di un truce regime totalitario, la loro pericolosità. Lo sappiamo, ma facciamo finta di nulla, se sciaguratamente si instaurasse un regime di quel tipo, l'ultima delle priorità sarebbe un rogo di libri data la loro manifesta marginalità. La libertà è una cosa meravigliosa, la libertà che mantenga dei contenuti sarebbe il paradiso in terra.

Italo De Profundis (un post furioso)

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Posso tediarvi, visto lo stato in cui versiamo, con il noioso racconto di un mio piccolo contrattempo, qualcosa di totalmente auto referenziale, qualcosa di vicino ad una fisima od una fissazione. Vi posso raccontare, tanto viviamo in una foresta di auto referenzialità, perché il mio volo di ritorno da Praga delle 21,10 di Venerdì, volo di ritorno da una lunga settimana di lavoro, sia partito alla volta di Milano alle 22,30 senza alcuna apparente seria ragione, se non una ragione direi semplicemente “razziale” o forse “genetica”, perché forse certe categorie di comportamento dovrebbero abbandonare il pensiero corretto ed essere analizzate con i feroci istinti di epoche passate. I passeggeri in coda all’imbarco, già dalla 19,15, erano al novanta per cento Italiani, si, ecco la ragione “razziale”, quando alle 20,40 i cortesi dipendenti dell’aeroporto hanno iniziato le procedure d’imbarco tutto sembrava una normale operazione di routine, ma non avevano messo in conto il meraviglioso genio italico. Dopo 15 minuti il primo richiamo: “I signori passeggeri sono pregati di presentare la carta d’imbarco per la tratta Praga-Milano e non Milano-Praga”, non si trattava quindi di una distrazione sporadica, ammissibile, ma di qualcosa di sistematico. Una buona percentuale di miei concittadini non aveva avuto l’accortezza di controllare o la capacità di distinguere e mettere in sequenza logica due punti nello spazio: A verso B o B verso A. Eppure se li guardi, i miei concittadini, hanno lo sguardo sempre estremamente attento e preoccupato, già forse pre-occuparsi è la nostra specialità, quando invece bisogna propriamente “occuparsi” di qualcosa salta tutto. Se il prodotto interno lordo si misurasse in ansia l’Italia sarebbe la locomotiva del mondo. Nutrite ancora speranze sul cosiddetto “riscatto italiano”, credete ancora al cosiddetto “impulso alla crescita”? La prima mezz’ora va via, ma questa è solo una scaramuccia preludio della vera guerra, la guerra del bagaglio a mano. Perché nonostante le regole sulla dimensione, il peso, il numero dei bagagli a mano siano scritte ovunque; dalla prenotazione, alla carta d’imbarco ai numerosi cartelli presenti in aeroporto, nonostante dovrebbe essere chiaro a persone con livello d’istruzione medio, che un aereo è un mezzo di trasporto e non una cattedrale del diritto, e che quindi, per ragioni di sicurezza il comandante, può riservarsi il diritto, IN QUALSIASI MOMENTO, di non accettare più bagagli quando l’aereo è troppo pieno, bene, nonostante tutto questo iniziano le proteste. Proteste che incredibilmente generano solidarietà di gruppo, l’Italiano, individualista fino all’osso, solidarizza quando c’è da fare qualcosa contro delle regole stabilite. Iniziano, con gli allibiti addetti dell’aeroporto, battibecchi, urla, pianti. Cosa avranno mai all’interno di quei maledetti e mastodontici trolley per arrivare a piangere? In pochi minuti è il caos, la fila si rompe, si urla all’ingiustizia: “quello lì è passato con una valigia enorme, perché devo essere fermato solo io?” Persino il finger diventa luogo di capannelli e adunate sediziose, signore italiane, già sedute in aereo, tornano indietro per andare a “gestire la situazione” dei parenti bloccati dalla sbirraglia. Ah le “signore italiane”, tutte uguali, con il loro golfino sottile ed il filo di perle attorno al doppio mento, e quelle scarpe, quelle orribili scarpe che sembrano scarpe da tennis di basso livello, con un enorme rinforzo sotto la suola che le rialza di dieci centimetri. Scarpe che solo il cattivo gusto di uno stilista Italiano poteva concepire, perché il tacco vero no, quello no, è volgare o meglio come usano dire le più borghesi delle “signore italiane” non è “a modo”. L’ossessione tutta italiana, di non essere considerati “a modo”, un desiderio di nobiltà che svela, come la maldestra bugia di un bambino, tutta l’aderenza che c’è ancora ad una cultura grezza ed arretrata. Uno spettacolo crepuscolare, queste signore e mogli che dominano la scena, Audrey Hepburn  imbolsite, che come in una trasfigurazione cubista, scivolano verso l’estetica transessuale. E poi gli uomini, fantasmi nel loro maglione di filo con marchio sul petto, non più in grado di dire una parola, in balia dell’ansia femminea. E cosa fa l’Italiano quando è in difficoltà? Si attacca al cellulare, conversazioni assurde, i ragazzi chiamano i genitori, i più anziani chiamano i figli. Come mai potrebbero aiutarli? Gli Italiani non affrontano i problemi, li “telefonano”. Poi senti il livello ed i contenuti di queste preziosissime conversazioni, la moglie che riferisce al marito: “sono in autostrada, si stanno fermando all’autogrill a mangiare un boccone”. Chissà se nelle altre lingue del modo civile esiste un espressione disgustosa come: “magiare un boccone”, l’estetica del bolo diventata abitudine, chissà se gli olandesi di settant’anni chiamano i figli di quaranta per sapere se hanno cenato, dove hanno cenato e cosa hanno mangiato. Non inganniamoci, non abbiamo alcuna speranza, e lo sappiamo, preferiamo morire così, raccontando il nostro declino al cellulare. Diceva Cioran, che alcuni popoli, a causa della loro lunga storia, sono semplicemente “stanchi”, noi siamo in coma. Alla fine, arriveremo a Malpensa dopo mezzanotte, e sciaguratamente su alcuni aerei c’erano delle gite scolastiche, e il terminal era preso d’assalto da una folla di genitori e parenti ansiosi all’inverosimile, pronti ad accogliere i loro eterni bambini come se fossero reduci dal Vietnam, bambini che erano appena stati in giro per l’Europa a fare le orge con le compagne e a calarsi di extasy. Sesso, droga, violenza, fantasie di stupro e poi la mammina all’arrivo che gli chiede: “cosa hai mangiato??? Perché l’altra sera non mi hai chiamato?” Alla fine arriverò a casa tardissimo, neppure in tempo per vedere Bruno Vespa, che ti parla un po’ della ripresa economica e un po’ della carriera di Albano Carrisi. Amo l’Italia, l’Italia desertificata! 

Il Risotto alla Milanese di Carlo Emilio Gadda

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L’approntamento di un buon risotto alla milanese domanda riso di qualità, come il tipo Vialone, dal chicco grosso e relativamente più tozzo del chicco tipo Caterina, che ha forma allungata, quasi di fuso. Un riso non interamente « sbramato », cioè non interamente spogliato del pericarpo, incontra il favore degli intendenti piemontesi e lombardi, dei coltivatori diretti, per la loro privata cucina. Il chicco, a guardarlo bene, si palesa qua e là coperto dai residui sbrani d’una pellicola, il pericarpo, come da una lacera veste color noce o color cuoio, ma esilissima: cucinato a regola, dà luogo a risotti eccellenti, nutrienti, ricchi di quelle vitamine che rendono insigni i frumenti teneri, i semi, e le loro bucce velari. Il risotto alla paesana riesce da detti risi particolarmente squisito, ma anche il risotto alla milanese: un po’ più scuro, è vero, dopo l’aurato battesimo dello zafferano.Recipiente classico per la cottura del risotto alla milanese è la casseruola rotonda, ma anche ovale, di rame stagnato, con manico di ferro: la vecchia e pesante casseruola di cui da un certo momento in poi non si sono più avute notizie: prezioso arredo della vecchia, della vasta cucina: faceva parte come numero essenziale del « rame » o dei «rami» di cucina, se un vecchio poeta, il Bussano, non ha trascurato di noverarla nei suoi poetici « interni », ove i lucidi rami più d’una volta figurano sull’ammattonato, a captare e a rimandare un raggio del sole che, digerito il pranzo, decade. Rapitoci il vecchio rame, non rimane che aver fede nel sostituto: l’alluminio.La casseruola, tenuta al fuoco pel manico o per una presa di feltro con la sinistra mano, riceva degli spicchi o dei minimi pezzi di cipolla tenera, e un quarto di ramaiolo di brodo, preferibilmente di manzo: e burro lodigiano di classe.Burro, quantum prodest, udito il numero de’ commensali. Al primo soffriggere di codesto modico apporto, butirroso-cipollino, per piccoli reiterati versamenti, sarà buttato il riso: a poco a poco, fino a raggiungere un totale di due tre pugni a persona, secondo l’appetito prevedibile degli attavolati: né il poco brodo vorrà dare inizio per sé solo a un processo di bollitura del riso: il mestolo (di legno, ora) ci avrà che fare tuttavia: gira e rigira. I chicchi dovranno pertanto rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta fase del rituale, mantenendo ognuno la propria « personalità »: non impastarsi e neppure aggrumarsi.Burro, quantum sufficit, non più, ve ne prego; non deve far bagna, o intingolo sozzo: deve untare ogni chicco, non annegarlo. Il riso ha da indurarsi, ho detto, sul fondo stagnato. Poi a poco a poco si rigonfia, e cuoce, per l’aggiungervi a mano a mano del brodo, in che vorrete esser cauti, e solerti: aggiungete un po’ per volta del brodo, a principiare da due mezze ramaiolate di quello attinto da una scodella « marginale », che avrete in pronto. In essa sarà stato disciolto lo zafferano in polvere, vivace, incomparabile stimolante del gastrico, venutoci dai pistilli disseccati e poi debitamente macinati del fiore. Per otto persone due cucchiaini da caffè.Il brodo zafferanato dovrà aver attinto un color giallo mandarino: talché il risotto, a cottura perfetta, venti-ventidue minuti, abbia a risultare giallo-arancio: per gli stomaci timorati basterà un po’ meno, due cucchiaini rasi, e non colmi: e ne verrà fuori un giallo chiaro canarino. Quel che più importa è adibire al rito un animo timorato degli dei è reverente del reverendo Esculapio o per dir meglio Asclepio, e immettere nel sacro « risotto alla milanese » ingredienti di prima (qualità): il suddetto Vialone con la suddetta veste lacera, il suddetto Lodi (Laus Pompeia), le suddette cipolline; per il brodo, un lesso di manzo con carote-sedani, venuti tutti e tre dalla pianura padana, non un toro pensionato, di animo e di corna balcaniche: per lo zafferano consiglio Carlo Erba Milano in boccette sigillate: si tratterà di dieci dodici, al massimo quindici, lire a persona: mezza sigaretta. Non ingannare gli dei, non obliare Asclepio, non tradire i familiari, né gli ospiti che Giove Xenio protegge, per contendere alla Carlo Erba il suo ragionevole guadagno. No! Per il burro, in mancanza di Lodi potranno sovvenire Melegnano, Casalbuttano, Soresina, Melzo, Casalpusterlengo, tutta la bassa milanese al disotto della zona delle risorgive, dal Ticino all’Adda e insino a Crema e Cremona. Alla margarina dico no! E al burro che ha il sapore delle saponette: no!Tra le aggiunte pensabili, anzi consigliate o richieste dagli iperintendenti e ipertecnici, figurano le midolle di osso (di bue) previamente accantonate e delicatamente serbate a tanto impiego in altra marginale scodella. Si sogliono deporre sul riso dopo metà cottura all’incirca: una almeno per ogni commensale: e verranno rimestate e travolte dal mestolo (di legno, ora) con cui si adempia all’ultimo ufficio risottiero. Le midolle conferiscono al risotto, non più che il misuratissimo burro, una sobria untuosità: e assecondano, pare, la funzione ematopoietica delle nostre proprie midolle. Due o più cucchiai di vin rosso e corposo (Piemonte) non discendono da prescrizione obbligativa, ma, chi gli piace, conferiranno alla vivanda quel gusto aromatico che ne accelera e ne favorisce la digestione.Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! solo un po’ più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de’ suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza. Del parmigiano grattuggiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una banalizzazione della sobrietà e dell’eleganza milanesi. Alle prime acquate di settembre, funghi freschi nella casseruola; o, dopo S. Martino, scaglie asciutte di tartufo dallo speciale arnese affetto-trifole potranno decedere sul piatto, cioè sul risotto servito, a opera di premuroso tavolante, debitamente remunerato a cose fatte, a festa consunta. Né la soluzione funghi, né la soluzione tartufo, arrivano a pervertire il profondo, il vitale, nobile significato del risotto alla milanese.


Lettera aperta a Fabrizio Barca

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Caro Fabrizio Barca, ammirevole, encomiabile, il tuo impegno intellettuale per riformare la Sinistra, ho letto il tuo documento, e devo dire, in un epoca di miseri tatticismi, di larghe intese, di sopravvivenza a tutti costi o di settarismo estremista la tua sembra Politica nell’accezzione più nobile del termine. E’ davvero impensabile che ci si debba dibattere, fino a esaurirsi, tra chi vuole una linea non differente dalla destra sia nei contenuti che nelle forme mediatiche-pubblicitarie e chi invoca: “più Sinistra” o “vera Sinistra”e poi non sa cosa dire o proporre se non argomenti “reattivi” e non propositivi. Patrimoniale, lotta all’evasione, legalità, cantilene che non possono essere una trinità che da sola identifichi uno spirito libertario, innovativo e progressista. E’ bellissimo che tu abbia detto che la Sinistra deve divorziare dallo Stato, smettere di identificarsi con esso. Io quindi credo che tu sia sulla strada giusta. Rimane però, e ti chiedo di non trascurarlo, un problema culturale notevole. L’elitarismo non è morto, e spesso essere di sinistra vuol dire adesione a criteri estetici ma non a concezioni di solidarietà, diritti, spirito di comunità. Ieri, ad esempio, io che sono un vostro elettore tipo, mi trovavo per una cena frugale al ristorante cinese sotto casa mia, e già questo mi provocava una velatura di colpa. Il ristorante era di quelli alla buona con cerata a i tavoli e alluminio anodizzato dappertutto. Bene di fronte a me sedeva una famiglia, quattro persone, tutte in evidente sovrappeso, coppia con figlio di circa 25 anni più presumibilmente una Nonna. Il giovane indossava una canottiera (orrore), la Nonna un fresco pinocchietto bianco e dei sandali alla francescana (abominio), erano a fine pasto e stavano scegliendo un dessert, per la precisione un dolce cartonato della Bindi, la scelta finì per cadere su una torta semifredda alla fragola. Fragole di colore quasi catarifrangente, la crema faceva sembrare le fette dei giubbotti di emergenza da automobilista. L’altra caratteristica di questa famiglia era la loro estensione del collo verso la TV LCD che si trovava sospesa al soffitto all’angolo estremo del locale, esattamente dietro di me, alla mia sinistra. Di tanto in tanto, scoppi di risa fragorose, seguivano Paperissima con un gusto ed una gioia da generare quasi invidia. Per qual arcano ed interiore motivo ho guardato quelle persone come il sottoprodotto della degenerazione culturale italiana? Perché non li ho ritenuti capaci di condividere ideali e di sviluppare propensione al bene comune? Semplicemente per un criterio estetico stereotipato che mi è stato inculcato per anni. E’ persino possibile che il sottoprodotto della degenerazione culturale sia io (anzi è la cosa più probabile) . Caro Barca, su questo dobbiamo lavorare molto, e non sono neppure sicuro che ne verremo mai a capo. E vogliamo parlare di tutte le serene conversazioni nell’alta borghesia illuminata? Al Sud soprattutto? Si comincia a parlare di senso civico che manca, si invidiano i grandi paesi civili del nord Europa, ci si lamenta del degrado, poi come spesso accade si invoca la repressione. Ed infine si dice che la polizia invece di perseguitare i trasgressori lombrosianamente definiti, fa le multe alle persone per bene, ai figli delle brave persone, perché sanno bene che multare o sanzionare uno “per bene” significa avere la vita comoda. L’argomento dell’impunità berlusconiana per eccellenza è il fondamento culturale dell’uomo “per bene” nei confronti della collettività, appartenere ad una classe agiata e calpestare le regole del vivere civile significa in realtà avere meno attenuanti. Noi “per bene”, noi di sinistra, vogliamo diventare la Scandinavia sulle spalle della classi disagiate, semplicemente rieducandole, e senza chiederci perché siano “maleducate”. Caro Barca, ti stimo, ma sei proprio sicuro di voler spendere il tuo tempo in questa impresa impossibile? C’è grande confusione caro Barca. Ascoltami, fai lo scrittore, l’opinionista, ma lascia perdere questa chimera inarrivabile, e se puoi prova una torta di plastica della Bindi invece di quegli orribili bio-pastrocchi a KM 0 che vanno tanto di moda.


Le coppie che ti guardano

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Vi è mai capitato di trovarvi in un ristorante, un locale, seduti ad un tavolo e notare, osservare e scrutare alcune coppie ricavandone un’impressione di malinconica freddezza? Lui con la testa china verso il piatto, con le gote in fibrillazione per una masticazione animalesca, senza alcuna grazia o accogliente lentezza, ma protesa verso una fuga, un’evasione netta da quel momento, quel luogo. Lei con lo sguardo perso in messe a fuoco impossibili, in un tentativo disperato della retina di fissare immagini ormai difficili da catturare se non  a prezzo di enormi aberrazioni ottiche: i primi appuntamenti, il famigerato amore, travisatore di ogni banale realtà, l’idea di futuro, l’entusiasmo. Attorno a loro gli avvoltoi del vivere spicciolo, del triste sopravvivere, del tozzo di pane (reale o simbolico) quotidiano. Ne avrete viste tante di coppie così, e le avrete usate, ne sono certo, come assi cartesiani per posizionare la vostra estetica della vita, la vostra morale delle relazioni. Avrete detto mille e più volte: “no, così no, io così mai” e lo avrete raccontato agli amici per una forma scaramantica ed esorcizzante di dissociazione. Eppure, io vi dico, la prossima volta che vi troverete in una simile situazione, provate a fare uno sforzo, provate a girare la telecamera verso voi stessi ed osservatevi. Provate a chiedervi, per quale motivo proprio voi, in un ristorante, trovate necessario od interessante soffermarvi sullo sguardo e su queste situazioni, qual è il bisogno? Qual è la gratificazione? Sono sicuro che con un onesta risposta a questi quesiti scoprirete davvero tanto riguardo a voi stessi, e non è detto che siano buone notizie.

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Oggi in occasione della palindromica ricorrenza dell'accidente estremo che è esistere, ho deciso di prendere un giorno di vacanza tutto per me, da dedicare ad ozi meditativi e bighellonate senza meta apparente. Nel pieno del relax e nel raggiunto nirvana, nel distacco dal tetris delle quotidiane occupazioni/afflizioni ho avvertito un forte, profondo, squassante capogiro. Ho pensato impaurito a quelli che schiattano al primo giorno di pensione con le chiappe al fresco di una piscina, ho allora acceso lo smartphone lavorativo e ho inviato una mitragliata di mail. Cosa mi ha spinto a quella superstizione? Cosa mi ha fatto legare in modo così morboso all'"accidente estremo" dell'esistere? Resistere per cosa? Ma soprattutto come la mia mente ha potuto partorire la finzione estrema ed edulcorante dell'esistenza di una futura pensione? Saranno i primi effetti della sclerotizzazione generale o della propaganda?

Gabbie di Farady

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Deve esserci stato un momento iniziale, un big-bang, un istante infinitesimale così vicino ma così diverso da quello infinitesimamente precedente in cui il flusso delle cose si è invertito. Ci penso tornando in questa città che mi rimase così impressa nella memoria circa dodici anni fa, perché l'istinto tende a posizionare questo momento fatidico nell'intorno di dodici anni fa ma senza certezza. Il momento in cui ho deciso (perché è puerile spostare le cause all'esterno) di diventare una Gabbia di Farady. E' rimasta in me, ma in forma attenuata, la mia ingorda voglia di non aderire, di guardare tutto dietro la lente deformante del sogno e dell'immaginazione, non scrivere ma vivere le cose come se fossero scritte. All'esterno un assedio senza tregua, il reale non vuole prigionieri, ecco perché forse le mie piume si son fatte metallo, il mio profilo alare si è forgiato a parafulmine. Che sia adesso il momento di far saltare la Gabbia di Faraday, lasciare che le cariche si disperdano, ritornare a tredici, quattordici anni fa, espandersi.....

Luce d'Agosto

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Ero pronto, prontissimo a scrivere una vera recensione, intrecciare un ragionamento su Faulkner e Luce d’Agosto, su questo gigante capace di intensità ed epos omerici ma declinati tra le strade fangose, oscure e remote del profondo sud, tra i volti di derelitti ai margini della storia tra Alabama e Tennesse. Ero pronto a parlare del flusso di coscienza portato all’estremo, o delle montagne russe narrative del continuo cambio di punto di vista, ma resto bloccato come il Pierre Menard delle Finzioni di Borges che nel tentativo di riscrivere un opera degna del Don Chisciotte di Cervantes finisce per ammettere che l’unica possibilità è replicarlo fedelmente, parola per parola. Così l’unica cosa che riesco a fare è copiare la frase finale della quarta di copertina, dove davvero trovo tutto: “ Non ci sono parole sufficienti per dare a Faulkner quel che è di Faulkner. Se mai esiste un paradiso dei lettori, di sicuro è Luce d'agosto»

Interrompere

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Ho molto su cui concentrarmi, obiettivi precisi e vitali, paradossalmente pieni di gratificazioni nonostante la loro natura problematica, quelle questioni che l’uomo medio affronta in genere con una sbrigativa corazza di superstizione. Ho adesso una direzione, eppure non si riesce ad interrompere la catena di aspettative e l’invariabilità psicotica di gran parte dei comportamenti che il prossimo può offrirti. La fissità di chi pensa che la comunicazione sia lamento od ostensione di tutte le paure che si possano umanamente concepire, di chi crede che ripetere all’infinito le stesse cose, secondo gli stessi schemi, sia salvifico: “io so, io conosco, io ti avviso” ed in questo modo mi auto assolvo da ogni dovere di partecipazione emotiva. Ci insegnano fin da bambini, e ce lo ripetono fino alla nausea che per “essere”bisogna "dire di essere”, per essere presente devi parlare, riempire, esorcizzare. La fissità anche di chi rimuove, scrolla le spalle, non vuole saperne di modificare o sporcare (a volte sporcare è positivo) il bel quadretto che in un remoto istante si è creduti di diventare, la foto di un Natale o di un compleanno o di una festa qualunque che in una certa fase dell’esistenza si è deciso di brandire come uno stendardo in processione, nella nevrotica, disperata, convinzione di arginare il fluire delle cose, il Caos trionfante ed inarrestabile. Ha detto qualcuno che ognuno di noi è mille e più persone, e che tra queste mille e più persone che ci abitano dentro non c’è filo logico, a volte neppure comunicazione. Quando sento parlare di “coerenza” o sento la domanda: “che senso ha?”è come se vedessi il Diavolo, quando sento qualcuno dirmi: “non sarebbe onesto o corretto” o “lo dico per principio” sono ragionevolmente certo di avere davanti qualcuno senza onestà, senza principi. Tutto sempre come prima, ognuno con le proprie caratteristiche e tendenze, ma con una linea comune: accampare diritti, chiedere. Misurare e giudicare gli altri secondo gli scostamenti dalle proprie richieste ed aspettative, inquinare il mondo con tutte le proprie fisime, che sono il paradiso in terra, avere orrore delle fisime altrui, che sono l’inferno. Non voglio tirarmi fuori da questa valle di lacrime, anch’io sono questo: “riempio” in alcuni casi, “rimuovo”, sicuramente “inquino” ma soprattutto: giudico, giudico ancora troppo, in una quantità ancora maledettamente troppo alta, come se giudicare fosse l’unica facoltà che definisca l’intelligenza (anche in queste righe l’ho fatto). Anch’io sono questo, ma non è detto che lo sarò per sempre, non è detto che tutto quello che mi si profila davanti e che spesso mi fa paura non sia in realtà una grande fortuna.

Battusa

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-Papà, io Lunedì non voglio andare a scuola, voglio rimanere a casa con te per fare una Battusa (una battuta), voglio farla con te, Lunedì mattina facciamo una Battusa alle nove e trenta e ridiamo-

-Ma dobbiamo andare a scuola-

-No, Martedì andremo a scuola, ma Lunedì Battusa, mi sveglierò alle nove e trenta-

-Ma tesoro, io alle nove e trenta devo essere al lavoro-

-Percheeeeeeé, perché devi essere al lavoro?-

-Mmm, come te lo spiego....mmm, i soldini capisci? Allora hai presente il pezzo di focaccia che ti compro dopo la scuola e che facciamo divedere in quattro pezzi? Io poi lo pago con dei soldini, ecco sai chi mi da quei soldini?

-No? Chi?-

-Il lavoro, tutte le volte che vado al lavoro in cambio mi danno dei soldini-

-Papà, perché prendi il caffè? Me lo fai annusare?

-Puaah puzza, sembra amaro-

-Si in effetti è amaro, e non ha un gran sapore-

-E allora se è cattivo perché lo bevi? Quando eri piccolo lo bevevi?-

-Nooo, non mi piaceva, ma neppure da ragazzino, non so poi come ho cominciato a berne sempre di più verso i venticinque, trent’anni e poi mi sono abituato, ma hai proprio ragione, a pensarci bene é disgustoso-

-Papà-

-Si-


-Io adesso ho preparato un sacco di Battuse, Lunedì voglio iniziare alle nove e venti!-

Peste a Milano

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Sicuramente non è la prima volta che mi scaglio contro i vizi linguistici e le aberrazioni del modo di esprimersi di questa città persa nel perenne sforzo di mostrarsi impegnata, produttiva, oberata, o per dirla con una di queste mostruosità, “sul pezzo”. Mi sono già scagliato contro i pranzi trasformati in squallidi “bocconi da mangiare” o in incontri ravvicinati con “pugni” di riso, o “pugni” di pasta. Sia chiaro, quando dico “questa città”, dico tutte le città che in genere a questo tendono. Non esistono anti-Milano, ma Milano sbiadite, Milano vorrei-ma-non-posso, perché a questo tende la saldatura tra sistema economico imperante e vocazione penitenziale della nostra retro cultura cattolica. La sto facendo complicata, lo so. Parlando di cattolicesimo, penitenza, parliamo allora di Peste. Ora dico, esistono mille e mille modi, al lavoro e nella vita, per dire che le cose si stanno mettendo male, o che sta per disvelarsi repentinamente la reale natura di alcuni problemi finora trascurati. “I nodi vengono al pettine” vi sembra male, poco incisivo? A me no. “Sta per scatenarsi la tempesta”, “Stiamo per navigare in acque tempestose” e similari, li ritengo efficaci, diretti, e carichi di metafore poetiche e di riferimenti alla pittura e alla tragedia di altissimo livello. Persino tradizionali richiami alla fede più genuina e semplice con i “Calvari” e “Via Crucis” mi stanno bene. Un modo ricco e solenne per esprimere delle paure. Ed invece no, bisogna ripiegare sullo standard imperante, per non essere percepito come il peggiore dei paria del mondo comunicativo moderno: “il forbito-sfigato-inconcludente”. Non sono sufficienti i richiami, peraltro forzati e arbitrari, alla letteratura Manzoniana e alla Peste di Milano per lenire il mio profondo disgusto tutte le volte che sento dire con voce solenne: “sta per scoppiare il bubbone”. Vi rendete conto? Già di per se concepire una forma immanente per le proprie paure sotto forma di bubbone è indicativo di uno stadio di degradazione emotiva senza precedenti: ricordo la definizione strettamente tecnica dell’oggetto: “rigonfiamento cutaneo generalmente edematoso e tumefatto, nettamente protruso all'infuori e dai contorni arrotondati e dal contenuto spesso purulento che si manifesta in corrispondenza di un linfonodo infiammato, generalmente all’inguine, alle ascelle o al collo”. Non secondaria, in questa estetica del disgusto, l’eziologia: tumori, leishmaniosi, malattie veneree, e appunto peste. Ma vogliamo parlare della potenza che si trasforma in atto? Della tensione interna che supera le forze connettive delle cellule più esterne e della pioggia di materiale escreto conseguente? Viene il vomito solo a pensarci, e nessuno può essere in buona fede, per quanto le malattie terribili prima citate possano essere remote, tutti avranno avuto nella loro vita un’ esperienza con lo schifosissimo schizzo di un brufolo portato a collasso volontariamente. Quella maleodorante, insolente, eiaculazione lipidica, mista a sangue, che centra lo specchio del bagno e lo unge all’inverosimile. “Noi siamo esattamente come ci descriviamo” direbbero alcuni filosofi del linguaggio, “Noi esistiamo come forma di rappresentazione” ci ricorderebbero gli Esistenzialisti. E quindi eccoci qui, nei nostri uffici ultramoderni, con i volti chiazzati dalle emissioni purulente del nostro lavoro quotidiano. Davvero non riesco più a valutare se ho gli strumenti per continuare a vivere in questa forma di contesto, in questo luogo. A volte mi chiedo se ho addirittura, sotto queste barbare condizioni di tirannia comunicativa, gli strumenti per vivere in generale. Ho bisogno di pulizia, di senso estetico, partendo dalle parole.




Tremo di fronte ai tremori

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Ci ha lavorato per delle ore alla sua torre labirintica e frattalica di mattoncini Lego, alta almeno un metro e venti. Lui, il mio paziente edificatore di cinque anni, è alto un metro e otto centimetri appena, e ha fatto sforzi enormi, sulle punte, con l’aiuto di una seggiola a tratti. Il piccolo distruttore, di dieci mesi ha appena iniziato una traiettoria gattonata, sobbalzante come un preistorico Mammut, ma non per questo poco decisa. A guardarla dalla prospettiva del mio “Maggiore” sembrava l’avanzata inesorabile delle truppe di Annibale con elefanti al seguito verso un fragile fortilizio romano. Dalla prospettiva del mio “Minore” era invece un accesso dorato e gioioso verso il mondo dei giochi del fratello. La distruzione fu inevitabile e repentina, il crollo fragoroso e finale. Il “mio paziente edificatore di cinque anni” si blocca tramortito, la logica vorrebbe una reazione furiosa verso il fratello ed io ad arginare le maldestre e pericolose rappresaglie, ed invece si blocca, mi guarda, avverto di sfuggita una vibrazione che lui prontamente mi conferma con una voce parzialmente e dignitosamente rotta dal pianto:

-Papà, papà, io sto tremando,....io sto tremando, papà, io sto tremando perché sono arrabbiato!!-


Come ogni genitore che ha salvato un briciolo di umanità dalle grinfie dell’ossessione educativa mi sento totalmente impreparato, riesco solo ad abbracciarlo e a fargli i complimenti per il suo autocontrollo, dentro di me gioisco per questa chiara e definita espressione di sentimenti, questa restituzione fisica di sue sensazioni. Allo stesso tempo pure io tremo di fronte a questo suo tremore, riconoscendo questo momento come fondamentale e decisivo. C’è da complimentarsi per l’autocontrollo? Il buon senso dice di si, l’istinto sa che dalla gestione della sua rabbia dipenderà gran parte del suo futuro, un briciolo di autocontrollo in più capace di fargli ingoiare il rospo senza neppure innescare il tremore e si apre il sentiero rischioso di una docilità e di una vocazione alla rinuncia, un briciolo di autocontrollo in meno, il tremore che si scarica in aggressività ed inizia la paura, il “disagio di civiltà” il rischio di una marginalità in un mondo che ci vuole ormai tutti dei grigi e compassati genetlman inglesi. Ed io che tremo di fronte al suo tremore, come sono cresciuto, che strada ho preso da piccolo quando mi sono trovato davanti allo stesso bivio? Avrò preso il sentiero giusto per aiutarlo, ha un senso il mio autocontrollo o è stato solo un inutile sacrificio?

Lì non è come da noi

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In giornate come queste, quando le prime brume di ottobre salgono dalla terra avvolgendo il cielo e tutta la città in una camicia di albume umido come fossimo all’interno di un enorme uovo cotto con vapori freddi, quando si subisce l’ironia di questo bagno turco gelido a cielo aperto, dove non si inalano balsami ed effluvi, ma particelle bituminose a stento intrappolate nella piramide sghemba dall’omnipresente molecola dell’acqua. Quando la strada per l’inverno e l’ora “illegale” è ormai spianata e tutte le mattine si poggia sul pavimento un piede dolorante come una spina che arriva fino al collo, almeno fino a quando le endorfine del vivere quotidiano agiscono come il curaro, le giornate in cui non è raro ascoltare conversazioni del tipo: -Tesoro che puzza, ma cos'è stalla? Un tubo scoppiato?-

-No, sarà che ho aperto un attimo la finestra della camera da letto per far cambiare l’aria-

Bene, in queste giornate qualche concessione alle origini, ai ricordi, va fatta. Così mia madre e mia nonna alla vigilia della mia prima uscita di casa verso nuove terre, cioè Napoli, dico Napoli, la città del sole, per un corso post-laurea: -Portati e mettiti la canottiera da mettere sotto la camicia-e con voce dolente di chi la sa lunga del permafrost extra-isolano-guarda che lì non è come da noi, la mattina fa freddo, c’è umido, è pur sempre Italia- E il bello è che avevano ragione! Lì non era proprio come da noi, la mattina che è la porta verso la nuova giornata è sempre stata l’enorme differenza. A ripensare adesso a quella frasi c’è da ridere, eppure era tutto vero, ed io ero quello, e la mia pianta del piede stava una meraviglia. Maledetto umido Continente, voi e quella ridicola fama di Paese del Sole e quella strada di ghiaccio ironicamente chiamata:“Autostrada del Sole”



The 5 Whys

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Si chiama“Tecnica dei 5 whys”, regola dei cinque perché, è un sistema di deduzione della catena causa effetti che viene insegnata nei corsi di management che ho personalmente seguito a più riprese durante la mia vita lavorativa. Raggiungere la causa ultima, per usare un espressione di aroma filosofico, o la root-cause(la causa radice) per usare il linguaggio industriale terra-terra. La presentazione è accattivante: pensate ad un bambino di 5 anni che vi fa una domanda, voi date la risposta e il bambino vi fa un’ulteriore domanda e poi un altra, è proprio imitando i bambini che arriverete a scarnificare (o a scarificare?) la realtà ed il problema in analisi. Viene ripetuto, a sostegno del concetto, il tipico mantra buonista-aziendalistico: “non esistono domande stupide”. L’attuazione è divertente, spesso efficace, ma difficilmente si fanno davvero tutte le domande che vengono in mente, perché nessuno nel profondo pensa che non esistano domande stupide o tali da farci sottoporre a giudizio e tutti amano accordarsi su soluzioni abbastanza pre-definite e legate allo status-quo. Diversa la situazione dei 5 Whys di un vero bambino di 5 anni, che sto parimenti sperimentando in questo periodo. Per prima cosa quasi mai si tratta di 5 Whys, ma di 10, 15, 20, 30 Whys consecutivi che ti inchiodano alle corde come una sassaiola di jab sferrati dal Marvin Hagler al top della carriera, dove non ci sono soluzioni predefinite ma un avvicinarsi al baratro della vacuità delle cause ultime delle cose. Mio figlio mi sottopone ad un esercizio esistenziale destabilizzante, il più grosso rammarico è che, tale il vicolo cieco in cui mi caccia, tutto risale ad un qualcuno che all’origine delle cose ha sbagliato qualcosa o semplicemente si è distratto. La causa di tutto ciò che non si spiega è qualcosa che è andato storto. E poi mi chiede: “perché ha sbagliato?” “perché si è distratto’”, in poche parole mi costringe ad ammettere che senza concetti pregiudiziali, la mia spiegazione del mondo è povera e altamente pessimistica. Mi rimane solo da capire cosa possa essere più educativo per lui, passargli il concetto di un noumeno, un Ding an sich da pensiero autoritario e forte attribuendo tutto ad errori di base -“Perché ha sbagliato”-o abbandonarsi alle seduzioni del pensiero debole ed adagiarsi su un –“Perché si è distratto”.

24 Ottobre, esco a prendere una boccata d'aria

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Ultimamente si comincia a dibattere sul fatto se i disturbi dello spettro autistico siano patologie o meno. Sul numero 95 di Mente e Cervello (Novembre 2012) c'è un'interessante serie di articoli in cui si tratta delle diversità strutturali del cervello nelle persone autistiche, che come conseguenza comportano un differente modo di elaborare le informazioni da parte delle persone nello spettro. Quello che finalmente si comincia a capire, e ad ammettere, è che differenza non significa necessariamente deficit, e che ragionare in modo che si discosta dalla media non significa essere malati. In particolare mi è piaciuto un ragionamento nell'articolo firmato da Laurent Mottron, che vi riporto:"[...] secondo la nostra collega Michelle Dawson, essere "più autistico" non significa necessariamente essere meno adattato. La riuscita di una tecnica di intervento viene di solito misurata sulla base della sua capacità di far sparire i segni dell'autismo e non sulla sua efficacia nel favorire l'adattamento, cosa che a mio giudizio è un grave errore. Di conseguenza le tecniche di intervento precoce più elaborate hanno un'azione pressochè nulla sull'adattamento. Si valuterebbe mai un programma educativo per bambini affetti dalla sindrome di Down dalla sua capacità di renderli "meno Down"? Certo che no. E tuttavia continuiamo a comportarci in questo stesso modo con i bambini autistici. Mentre si accetta l'idea che non si possa fare nulla per sanare le differenze causata dalla sindrome di Down o dalla sordità, continuiamo a illuderci che nel caso dell'autismo si possa, e soprattutto si debba, eliminare la differenza".Quello che penso io, detto senza nessuna intenzione di praticare del buonismo stile new age, è che le persone nello spettro autistico siano perfette come sono, esattamente come gli altri. Però, come gli altri, hanno potenzialità che è giusto che siano sviluppate, ed è in questo senso che dovrebbero andare le cosiddette "terapie" (parola che secondo me andrebbe sostituita con qualcosa di più costruttivo). Pensiamo a come si è evoluta l'umanità. Se l'uomo non avesse mai avuto modo di esprimere le sue potenzialità, a quest'ora probabilmente staremmo ancora a spulciarci a vicenda sugli alberi. Allora, cosa è più giusto, addestrare stile cagnolino dei bambini ad assomigliare il più possibile a quelli che sono nella media, o insegnare loro a esprimersi e a relazionarsi con gli altri in modo da sviluppare al meglio il proprio potenziale?

Fonte http://www.pianetaasperger.com/

Riflessioni fatte ieri andando a far la spesa

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Vi sarà mai capitato di passeggiare tranquillamente per le vie della vostra città, approcciare un supermercato per degli acquisti rimasti fuori dalla lista, oppure essere spettatore passivo o “accompagnatore” durante una sessione di shopping altrui, muovere i vostri passi appena fuori dalle vetrine illuminate ed in ordine, sentire che la vostra silenziosissima suola in gomma crêpe delle vostre desert boot o di qualunque altra scarpa levigata e sobria che fascia il vostro piede gottoso da lavoratore intellettuale, passare dalla ruvidezza dell’asfalto lisciato del marciapiede, alla fredda carezza di una griglia metallica. Quelle griglie metalliche che danno luce a piani scantinati sottosuolo di almeno 4 metri, che, se guardate sotto vi danno una sottile vertigine ed in alcuni casi il pensiero psicotico sulla capacità di reggervi salvandovi da una fine tragica e indecorosa. Sono cose sulle quali non ci si sofferma lo so, eppure bisognerebbe guardare sotto con pervicacia, analizzare per dedurre, se vi capita poi uno scantinato illuminato da una lampada e avete la fortuna di disporre di uno spirito di osservazione non ancora annientato dalle miserie contabili e cronometriche della vostra quotidianità (eventualità semi-utopica a certe latitudini socio-economiche) avrete un’ occasione rara per consolidare le vostre convinzioni libertarie, anti sociali e volte allo sviluppo della spiritualità invece che dell’adesione a dei rituali alienanti (ammesso che ci sia ancora un barlume di speranza in voi). La verità è sotto quelle grate. Guardate bene. A distanza sembra un cromatismo da action-painting, un’immensa e voluta sgocciolatura di colore, in realtà basta un minimo di messa a fuoco da parte del vostro occhio per scorgere un tappeto di rifiuti senza fine, rifiuti di piccola taglia, adatti a penetrare abilmente la trama delle grate e finire sul pavimento: pacchetti di sigarette deformi, scatoline di gomme da masticare, confezioni dai colori vivaci ed accattivanti che, vigendo le attuali leggi del marketing, potrebbero indifferentemente essere praline o preservativi, tovagliolini da gelateria intonsi o imbrattati da una sfumatura di nocciola e cioccolato, carte di snack, barrette proteiche, bucce di arachidi, volantini pubblicitari di massaggi cinesi o scuole di tango, pezzi di filo interdentale, tappi di penne biro, e su tutto una popolazione enorme, incommensurabile, biblica, di bastoncini di legno per gelati da passeggio, tonnellate di betulla (sommando tutti gli scantinati di tutte le città) creano queste foreste sotterranee in miniatura. Ma che cos'è quella spazzatura? Perché si trova lì magari quattro metri sotto una strada linda e residenziale, tirata a lucido, piena di portoni signorili? E’ lì perché semplicemente concorrono alcuni  elementi: nessuno la vede, nessuno va a pulire, perché la nettezza urbana non può accedere a locali privati. Quella marea che si vede è la risultanza di un rapporto tra spazio pubblico (la strada) e spazio privato non adibito a rituali sociali (lo scantinato) non mediato da un sistema sanzionatorio legale o da un freno per timore della riprovazione sociale. Quella monnezza è quindi l’Uomo nella sua modalità più spontanea di condotta, lo so, non scopro niente, tutti ci siamo imbattuti in poltrone del cinema o tavoli di uffici pubblici dove al di sotto, nella parte non visibile, era stato appiccicato di tutto, ma qui è la quantità che impressiona, la stratificazione nel tempo. Ed è impensabile attribuire quel fioccare di rifiuti ad una classe di “cattivi”, di incivili, circoscritta e separata dalla massa per bene, le quantità e la capillarità degli scarti è troppo spinta. Pensateci alle persone che si lagnano se la maniglia di ottone del loro portone non è perfettamente lucida, o se qualcuno, magari un bambino, entra in casa loro dopo il pioviggine, lasciando un alone umido sul pavimento, quelli che ti apostrofano persino se il maglione che indossi non sta nella gamma dei grigi o dei blu profondi, quelli del calzino corto che orrore. Gli stessi che lasciati senza controllo, senza correre rischi, spontaneamente intasano dei lucernari di ogni genere di rifiuto. Anche l’impossibilità della nettezza urbana di pulire quei locali è fortemente simbolica. Il nitore, la pulizia, più in generale la “Civiltà” si basano su una ripetuta e ossessiva manutenzione, su un intervento calato dall’ alto per arginare il caos che spontaneamente prende il sopravvento. Il singolo, compreso l’uomo per bene, che propina a tutti pillole di civiltà e di “ben vivere” pensa alle regole come un freno a ciò che gli altri possono fare e difficilmente si interroga su se stesso, tutto funziona se si delega ad un autorità esterna, ad un ente tecnico ed astratto, altrimenti tutto è monnezza.

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